Piccola citazione tradotta di uno dei più importanti intellettuali che hanno lavorato e vissuto in Madagascar.

Il Madagascar sta vivendo un lento e profondo cambiamento nelle sue strutture sociali. Questo sviluppo, ancora poco visibile e in gran parte ignorato, corrisponde a ciò che Bergson chiama il passaggio da una società chiusa a una società aperta. Il primo «mira solo ad essere preservato» ed è caratterizzato da «uno stato di cose in cui l’individuo e il sociale non si distinguono l’uno dall’altro»; la seconda porta “l’entusiasmo di una marcia in avanti”, in cui “è implicitamente contenuta la sensazione di progresso”. “Il primo dovrebbe essere immutabile. Se cambia, dimentica immediatamente di essere cambiata o non ammette il cambiamento. La forma che presenta in ogni momento pretende di essere la forma finale. Ma l’altro è una spinta, una richiesta di movimento; è mobilità in linea di principio”. Questo spiega una serie di fenomeni ricorrenti in Madagascar, a partire dal ritiro dell’identità da una società un tempo tollerante, oggi indebolita dalla perdita dei suoi punti di riferimento tradizionali, dalla violenza delle caste e delle rivalità etniche e dall’incapacità di gestire la collettività.

I cambiamenti in atto indeboliscono i valori e i comportamenti ritenuti immutabili. Il trauma collettivo risultante vede l’ordine stabilito delle stratificazioni sociali (caste) e del potere umano tradizionale (nobile, anziano o anziano) contestato dalla politica, dalla scienza e dalla tecnologia, dall’economia, dai media e dai diritti umani. L’onnipotenza del denaro assume la priorità dei rapporti sociali. Questo spostamento, insidioso e progressivo, destabilizza profondamente una società priva di parametri di riferimento. Da allora in poi, tutto è permesso a un giovane che esprime le proprie frustrazioni con la violenza come a una classe di opportunisti che saccheggiano e rovinano il Paese.
Il Madagascar ha seguito PAS (programma di aggiustamento strutturale), PRSP (documento di strategia per la riduzione della povertà), DCPE (documento quadro di politica economica), HIPC (iniziativa nota come paesi poveri altamente indebitati) e un altro MAP (piano d’azione del Madagascar), con in vista del raggiungimento dei chimerici MDG (Millennium Development Goals). Da questo turbinio di etichette che ripetevano gli stessi farmaci non è uscito nulla di sostenibile, se non, come si è detto, alcuni anni di crescita senza sviluppo (1997-2001 e 2004-2008). Continuare su questa strada sarebbe un suicidio. Ma sono urgenti due grandi riforme: la riduzione delle disuguaglianze sociali e il decentramento.

La Banca Mondiale non sa che è stata la monarchia Merina ad avviare questo sistema altamente centralizzato nelle regioni conquistate nel corso del XIX secolo. La colonizzazione prese il sopravvento e perfezionò la pratica, che continua ancora oggi, a volte a beneficio delle stesse famiglie. Questo riflesso accentratore, profondamente radicato nelle mentalità, fa sì che i politici costieri si stabiliscano principalmente nella capitale, trascurando le loro regioni di origine di cui dovrebbero promuovere lo sviluppo.
Perché sostenere la riduzione dei salari e le dure condizioni di lavoro delle zone franche; fornire agli europei e ai nordamericani prodotti di abbigliamento economici? Non sarebbe meglio avere un’industria nazionale che soddisfi i bisogni primari, al riparo da una protezione doganale minima, con risorse naturali, minerarie e ittiche che forniscono il resto?

Queste prospettive presuppongono una rottura con le pratiche seguite fino ad oggi. Implicano la definizione di una strategia agricola che, attraverso la diversificazione delle speculazioni e il miglioramento dei rendimenti (in particolare l’IRS), valorizzi la produzione agricola (fino ad allora mantenuta a prezzi bassi per non scontentare il proletariato urbano) ed eleva lo standard di vita dei contadini; e, allo stesso tempo, la riabilitazione dei collegamenti rurali e l’igiene del settore dei trasporti. Presuppongono la definizione di una strategia industriale che, rinunciando al dogmatismo del libero scambio, ponga le basi per un’industria.

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